Storia di Gigal

Agosto 2010. Un giorno sono andata a trovare Clelia, all’ospedale di Kingasani. E come sempre sono finita al reparto denutriti. Stavolta la maggior parte delle mamme e dei loro bimbi erano stesi o seduti su pagne all’aperto. C’era un bimbo isolato, lasciato a se stesso. Non mi ha sorriso. Confuso fra le braccia delle donne ne ho poi visto uno bianco di pelle e di capelli. Suor Clelia mi ha detto Non è un albino, è che ha perso lo strato di pelle nera e non ha più i pigmenti, quindi è diventato bianco e bianco resta. L’ho presa come me l’ha detta: un fatto. Un fatto: quel bambino che era nero e adesso era bianco. Sotto il nero hanno il bianco. Come fosse uno squamarsi, un perdere la carne la pelle i capelli. Un decolorarsi. Pelle nera poi pelle bianca poi bianco osso. Suor Clelia mi ha preso per mano e mi ha detto Vieni, te ne faccio vedere due, poverini.

E mi è parso come di andare a scegliere chi si salva e chi no. Ma andiamo avanti. Vedi questi? mi ha detto. La loro mamma non ha cervello, cade sempre, non si ricorda dov’è. Sono crisi di epilessia. Figurati i bimbi. Sono destinati a soccombere. La madre era una ragazza. Lo sguardo squinternato, assente; il sorriso un po’ ebete; una lunga cicatrice sulla fronte. Una ragazza di quelle che si vedono per le strade polverose di Kinshasa, cenci e tempo che passa fra un rimasuglio di cibo e un sonno. Vicino a lei due bimbi. Uno a terra, seduto, paffuto, bellissimo. Mai visto un bambino così bello. Non era davvero grasso bensì col ventre gonfio, tipico. La pelle abbastanza sana, senza quell’unguento blu che li aiuta quando la perdono. Era già qualche tempo che stavano lì, e Gigal, così si chiama il bambino, almeno la pelle l’aveva riacquisita. In braccio alla ragazza, seminascosto dalle stoffe, un bimbo più piccolo, più magro. Una specie di uccellino dalla pelle cascante e gli occhi giganti che si lamentava, faceva smorfie stanchissime come se anche respirare gli costasse fatica. Un animaletto che ti veniva da dire al posto suo, in sua difesa: Basta. Gideon. Tornata a casa, in rue Kitona, sapevo già li avrei presi. presi come si ruba vita. presi come si prova a salvarla. presi alla madre, per fare chissà cosa.

E se qualcuno che ha la legge in mano (quelli che giudicano, quelli che decretano, quelli che ordinano le cose del mondo in base a regole internazionali e norme) leggesse queste parole, verrebbe a cercarmi. E io gli direi Andate là, stupidi, andate là e smettete di blaterare coi vostri vestiti puliti e le cene e i pranzi, i vostri ideali i vostri accordi i vostri flussi. Andate là e senza guanti mettetevi a pulire i pavimenti dove c’è la saliva il sudore i liquidi di quegli esseri umani che sotto lo sporco e il nero hanno uno strato pallido come il nostro, solo che a vederlo fa senso. Andate a guardarli quando vi guardano e neanche vi chiedono più niente. Mettetevi a piangere dite le vostre preghiere date soldi e scappate, tornate alle vostre splendide vite. Però finché siete lì a guardarli in faccia fatemi sapere come vi sentite. Impotenti. Sopraffatti. Furiosi. O magari siete fra quelli che hanno paura di prendere virus e, in fondo in fondo, non ve ne frega niente. Solo dopo ne potremo parlare, forse. Alessia non voleva, mi diceva Nella casa ci sono già tanti problemi, aggiungi complessità a complessità. Ma io non l’ho ascoltata e non ascolterò mai ragionamenti su certe cose, anche se so che sono giusti. Come si fa a non mettersi dall’altra parte. Se io fossi dall’altra parte, vorrei semplicemente salvarmi, in un modo o nell’altro. E finché sono un bambino non posso neanche chiedere, non posso uccidere per difendermi, non posso ribellarmi. Non so quello che mi succede, ho solo fame e mi fa male. Magari non ho neanche la forza di allungare le braccia e dire portami via da tutto questo. Non so neanche se c’è altro.

Se io fossi dall’altra parte ma non lo sono, sono dalla mia e quando sei lì ti senti in colpa per tutte le volte che sei andato al supermercato e hai fatto distinzione fra le marche e i sapori. Per ogni confenzioncina che hai comprato per toglierti uno sfizio, ti viene il bisogno fisico di salvarne uno. Lì, si sente di non avere il diritto di vivere al posto di chi muore. Deve vivere, come minimo, anche lui. Qualche giorno dopo con Giampi e Alessia siamo tornati all’ospedale. Sapevo li avremmo presi, anche se niente era stabilito. Suor Clelia ci ha visto arrivare. C’era anche l’altra suora. La mamma di Gigal e Gideon non capiva: avremmo potuto derubarla, violentarla, ammazzarla e non capiva. L’abbiamo portata in una stanza, ci siamo seduti insieme a lei, alla vicina di casa che le stava facendo visita, ai due bimbi, alle suore. Era una stanza dove altri bambini facevano la riabilitazione. Ovvero erano in corso miracoli in forma brutale: gambe poliomielitiche curate legando i bimbi a un piccolo palo e tenendo le gambe in tensione, cose così. Bambini urlanti, infermiere nere efficienti e quasi spietate, e le mamme lì sedute ad aspettare anzi senza neanche aspettare che smettessero le grida. Clelia mi ha detto Ce la facciamo sai? Alcuni tornano in piedi.

Alessia aveva in braccio Gigal. La grande maman che nel reparto dà da mangiare ai denutriti teneva sul grembo Gideon. Ho scritto per tre volte, su tre fogli, parole che a Kinshasa possono forse servire a far capire che due bambini passano di mano in mano. Li ho firmati. La mamma dei bimbi, la vicina e una suora li hanno controfirmati. Giampi faceva riprese. Siamo saliti su un piccolo bus, diretti verso casa. Siamo stati fin da subito preoccupati per Gideon… Primo giorno. Prima notte. Gigal si è attaccato al cibo e non l’ha più lasciato. pane. nutella. pesce secco. marmellata. Gigal si è attaccato al torace di Giampi e ci ha vissuto e dormito sopra. La notte, sdraiato nella stanza di Desiré sopra a un materasso infilato sotto un tavolo su cui abbiamo steso una zanzariera, ha infestato l’aria di puzzette. E’ normale, ci han detto. E ha sudato in continuazione. Anche questo ci han detto che è normale per un denutrito. Nel mezzo dello sterminato mercato del centro, abbiamo visto un girello e glielo abbiamo comprato. Con quel cose verde in spalla, le strade di Kinshasa mi sembravano il Mar Rosso. Un girello per Gigal. Altro che le tavole della legge. All’inizio non lo voleva, anzi piangeva vedendolo, non si capiva perché. Maman Mirfi gli cambiava in continuazione il pannolino. Ne abbiamo comprati molti, di pannolini. Quelli che si lavano e si riusano. Per Gigal, per Gideon, per Rosella. Ogni tanto Gigal allungava le braccia come a voler uscire dall’abbraccio robusto di Giampi. Erano i momenti in cui voleva camminare, o per lo meno provarci. Allora gli facevamo fare qualche metro tenendogli le manine. Con i piedini ancora gonfi affrontava il suolo, uno, due, tre, piano piano, barcollando, senza equilibrio autonomo. Dopo che sono sono partita, mi hanno detto che ha iniziato ad usare il girello, e anche il vasino come una minuscola sedia. Dopo circa una settimana ha fatto un gran sorriso.

Gigal ce l’ha fatta. Fa le puzzette, mangia, sembra un piccolo tiranno dallo sguardo che ti entra nello stomaco. Con un’espressione intensa e seria già da adulto. Ma nella foto in cui sorride, torna esattamente alla sua età. Tre anni e mezzo, forse. Una vita davanti. Gideon. Invece. Era troppo piccolo. Un anno e mezzo. E da troppo tempo che non mangiava. Non ricordo se la madre, quando se ne è andata con la vicina dopo aver visto la casa, lo ha salutato. All’inizio Gideon sembrava la chiamasse, sembrava volesse il suo seno. Non ce l’abbiamo fatta subito a dargli il biberon, né il cucchiaino con la pappa per i denutriti che preparavamo. La prima notte Alessia si è messa la pila-frontalino e l’ha imboccato, pazientemente, facendo i conti coi millimetri di cucchiaio che gli entravano in bocca. E noi attorno come un presepe. Sophia lo teneva in braccio. Gideon ha cagato, pisciato, vomitato. Ho fatto fatica a tenere lo stomaco a posto. Alessia e Giampi sono stati ore e ore lì, attenti, forti, determinati, in bilico fra il crederci e il non sperare più.

Il giorno dopo era ancora vivo. Già qualcosa. Gli abbiamo dato le medicine, con l’aiuto di maman Mirfi e maman Muiala, e latte in polvere. Poco a poco ha imparato a prendere in bocca la punta del biberon. Ha ingurgitato quantità di latte ridicole, che non avrebbero sfamato neanche un uccellino. Finché al secondo o al terzo giorno ha cercato quel piccolo capezzolo di plastica. Con piccoli movimenti della bocca, fra un sonno letargico e l’altro, madido di sudore, con le rughe dello sforzo di respirare. E tossiva, Gideon tossiva e avevamo paura che, tossendo, buttasse fuori quel poco di latte e di farmaco che si era riusciti a infilargli in bocca qualche istante prima. E’ successo sempre meno, riusciva a tenere giù il latte e la pappa e le medicine. Sono partita che aveva ancora il viso di un uccello spiumato, fradicio, stremato. Ma speravo che coi giorni piano piano recuperasse. Mi hanno detto che mangiava un biberon intero. Vedevo la scena di Maman Mirfi seduta sul materasso con Gideon steso vicino o in braccio. Poi sono partiti anche Giampi, Alessia, Andrea. Ci hanno scritto qualche giorno dopo. Aveva dato un colpo di tosse. Poi basta. Basta alla pappa allo sbattere d’occhi al respiro. Abbiam pagato il funerale, un privilegio in Congo.

Non hanno avuto la delicatezza di risparmiarci le foto in cui lo si vede infilato in una piccola bara, corpo minuto vicino a un altro corpo (una bambina), composto da un infermiere o pseudo-tale che gli pettina le ciglia o qualcosa del genere. In un’altra foto il tragitto di quella scatola di legno tirata a lucido (in Congo ci tengono alle cerimonie) accompagnata da alcuni bimbi della casa, i più grandi, e da Desiré. Circondati di militari, facce da bestie unte di soldi. Altra foto. Un buco in terra. Le solite corde. La madre che si asciuga una lacrima con un fazzoletto bianco. Poi farà un altro figlio, la povera donna. Finché magari per strada un’auto o un uomo non avranno tempo di badare al suo corpo e le passeranno sopra senza farne un dramma. Maman Mirfi, ci hanno scritto, lo aveva in braccio quando Gideon non ce l’ha più fatta a lottare per stare al mondo. Si è spaventata. E’ corsa fuori a cercare il marito. Lo ha chiamato al telefono. Invano. Maman Mirfi, lo so, per giorni e giorni avrà pianto. Avrà pensato cose buone di questi bianchi che ci hanno almeno provato. Già. Non è nella loro cultura millenaria arrabbiarsi per i rimorsi di coscienza, per le sfaccettature della libertà la responsabilità e la colpa. Insciallah. I bimbi, nelle foto, avevano l’espressione di chi, semplicemente, sotterra un suo simile. Suor Clelia lo ha saputo, mi ha detto al telefono Non sentirti in colpa, è troppo tempo che non mangiava.

Ho capito che ha pensato Uno su due ce l’ha fatta. Sì, ma. Ciao Gideon, occhi enormi ma organi troppo minuscoli. Non si aggiunge altro a quel che si sottrae. Gigal adesso è nella casa di Rue Kitona. E nei documenti, foglietti di bloc notes lasciati a certificato in triplice copia, c’è scritto che possiamo tenerlo a tempo indeterminato. Se la madre lo rivolesse, glielo ridaremmo. Ma non lo verrà a chiedere. Forse lo verrà a trovare. E le daremo del riso per farla mangiare almeno un giorno. Non è detto che Gigal la riconosca, e se la riconoscesse – poiché è indubbio che gli altri bimbi gli diranno E’ la tua mamma – non è detto che gliene importi. La vita vuole vivere, e fa quel che deve. Il cuore viene dopo. Molto dopo il cibo. Il sorriso ne è il primo segno.